Spesso in questa rubrica si usano termini come campione e fenomeno. Ora, la parola campione, aben vedere, un suo significato ben preciso ce l’ha. Campione è colui che ha vinto almeno un campionato mondiale. Può sembrare banale. Puoi essere velocissimo e amato dalla folla, ma se non hai vinto un campionato non sei e non dovresti essere mai chiamato campione.
Per chi scrive, con buona pace di Dani Pedrosa, dovrebbe essere chiamato campione solo chi vince il titolo mondiale della classe regina. Ma questa è una masturbazione mentale del tutto personale.
In ogni caso chiunque vince un titolo mondiale è o almeno dovrebbe essere un campione.
Poi ti fai delle domande e pensi a Àlex Crivillé che oltre al mondiale in 125 del 1989 si porta a casa l’alloro della 500 nel 1999, oppure a Kenneth Leroy Roberts Junior, il figlio del marziano, che vince nel 2000. E dopo averli ricordati, metti a confronto le loro vittorie con la carriera di Randy Mamola.
Mai vincitore di un campionato mondiale. Quattro volte secondo e due volte terzo nella classe 500 degli anni Ottanta. Battuto da gente come Kenneth Leroy Roberts, il marziano, Freddy (una volta veramente) Fast Spencer, Steady Eddie Lawson. Mamola Un talento puro. Eppure, eterno piazzato!
Come si fa a non definirlo un campione?
La parola campione allora nel tempo ha subito un allargamento dell’orizzonte semantico.
Ė campione anche chi si è battuto valorosamente contendendo il titolo sino all’ultimo e lo ha perso magari per un colpo di sfiga, vedi Martin che squaglia all’ultimo giro il pneumatico posteriore a Phillips Island nel 2023. Ed è campione anche chi ha picchiato l’avversario come un martello per tutto il campionato finche’ qualcuno non lo ha fermato con una dubbia bandiera nera, vedi lo stesso Biaggi a Barcellona nel 1998.
Ė giustamente campione proprio Dani Pedrosa il cui talento è stato frustrato dal Dottore o da Crazy Stoner
Nella indulgenza dei ricordi tanti diventano campioni. Forse troppi. E la parola lentamente sta perdendo il suo più autentico significato.
Poi c’è la parola fenomeno. Che non dovrebbe significare nulla di più di ciò che appare. Di ciò che i nostri sensi percepiscono. Fenomeno invece nel tempo ha cambiato il proprio significato e ha ristretto il novero delle possibili attribuzioni. Fenomeno non è semplicemente uno più bravo, uno che vince le gare e i titoli. È semplicemente qualcosa di diverso, un alieno nel senso di estraneo al comune percorso di vita di tutti gli altri piloti. Uno che sull’asfalto dei circuiti imprime con la gomma nera un nuovo corso alla continua ricerca della velocità. Il fenomeno è uno spartiacque. Uno di cui si potrà dire che esisteva un modo di andare veloci prima di lui e un modo di essere non solo lenti, ma persino sgraziati ed anacronistici dopo di lui. È semplicemente uno, nel senso che è indiscutibilmente il numero uno, quale che sia il risultato della fine settimana di gare. Perché comunque lui ha vinto già dalla conferenza stampa del giovedì. E se alla fine non alza il trofeo, la vulgata sui media parlerà di una sua sconfitta e mai della vittoria di un altro.
Per tutti quelli che pensano che queste siano vuote parole, consiglio di dare una occhiata agli ultimi due gran premi di Marquez.
Chi legge questa rubrica sa quanto le prossime parole costano allo scrivente. Proprio quando molti commentatori pensavano che stesse già pensando al 2025, Marquez ad Aragona ha ridicolizzato i contendenti al titolo. A San Marino ha semplicemente mostrato che, nonostante tutta la aereodinamica e le diavolerie elettroniche, in moto contano solo los cojones.
Fuck the rest.
E non si dica che Martin e Bagnaia sono frenati dalla necessità di marcarsi a vicenda in ottica mondiale. Balle. Marquez corre con una Ducati usata, curva con la grazia di un ballerino di danza classica e apre il gas con la ferocia di una tigre affamata, e se ne frega della matematica.
Nel prossimo fine settimana si torna a Misano. Forse è arrivato che Martin e Bagnaia smettano di fare i ragionieri e dimostrino lo spessore della loro dignità. Soprattutto Pecco che, paradossalmente più di Martin, ha bisogno di vincere questo maledetto mondiale. Continuare a vincere per riuscire finalmente a convincere. Questo il suo destino.
Ecco la differenza. Il campione può anche vincere alla fine, il fenomeno invece ti umilia sempre, non per cattiveria ma per talento innato.
Anche se Marquez, come si accorgeranno Bagnaia, Tardozzi e Dall’Igna il prossimo anno, forse un pochino cattivello sembra esserlo. Non che il Dottore fosse poi un boy scout …